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Il Punto


GUERRE, FAME, CRISI ECONOMICA: LE RESPONSABILITA' DEL CAPITALISMO


Il primo mese del 2015 ha riservato, in rapida successione, degli avvenimenti di grande rilievo politico internazionale; dai gravissimi attentati in Francia, passando per le guerre in corso in Medio Oriente ed Ucraina, per finire con la vittoria di Syriza nelle elezioni parlamentari in Grecia.

L'avanzare del fondamentalismo e la guerra in Medio Oriente

La strage compiuta dal commando fondamentalista islamico durante l'assalto alla redazione di “Charlie Hebdo”, a cui si sono sommate le vittime nel mercato kosher, ha avuto una risonanza internazionale ed è stato condannato, a dire la verità con molti distinguo, in tutto il mondo. Le grandi manifestazioni a Parigi e nelle altre città francesi hanno evidenziato l'indignazione popolare e la volontà di respingere il terrorismo; come ciò verrà attuato è ancora da vedere. Ma oltre alla doverosa condanna di questi atti terroristici, inaccettabili, sarebbe necessario che tutti si ponessero delle domande per capire meglio da cosa nasce questa situazione e quindi come poterla affrontare. Su questo molto è stato scritto e, da parte nostra, vorremmo evidenziare alcuni punti.

Innanzitutto le responsabilità storiche dell'imperialismo britannico e francese, ma non solo, che in seguito alla sconfitta dell'Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale disgregarono questi territori in base ai propri interessi; un tentativo non completamente riuscito, vista la reazione del giovane nazionalismo turco, ma quanto bastava per disegnare stati e frontiere artificiali – dettate dal disegno neocolonialista del divide et impera ed dalla dislocazione dei giacimenti di petrolio allora conosciuti - che non tenevano conto del secolare intreccio di varie popolazioni e religioni e che avrebbero poi costituito il pretesto per tante guerre e crisi internazionali (1).

Inoltre le potenze occidentali, dopo la seconda guerra mondiale e la tragedia della Shoah, favorirono i disegni del movimento sionista che fino ad allora aveva avuto una scarsa incidenza nelle numerose comunità ebraiche presenti nell'Europa centrale ed orientale; comunità che invece vedevano una forte presenza di movimenti socialisti e libertari. Nacque così lo Stato di Israele, dopo una guerra lampo vinta dalle brigate ebraiche accompagnata da atti di terrorismo nei confronti della popolazione araba, che fin dall'inizio si caratterizzò come un sicuro avamposto degli USA piantato nel cuore del Medio Oriente e che costituì, ieri come oggi, una ferita sempre aperta per le masse arabe e più in generale per il mondo musulmano.

Ma oltre a questo lo status quo in gran parte del Medio Oriente fu messo in crisi dai movimenti nazionalisti che rivendicavano l'emancipazione dalla tutela diretta o indiretta delle potenze occidentali; ci sembra interessante sottolineare che, per lungo tempo, la spinta nazionalista fu rappresentata quasi ovunque da movimenti “laici” che spesso intrecciavano le loro rivendicazioni con l'esigenza di una società che si richiamava al socialismo. Negli ultimi venti anni, anche a causa della grande corruzione delle classi dirigenti e della disillusione per uno sbocco falsamente “socialista”, si è fatta sempre più forte la presenza di movimenti fondamentalisti islamici che portano avanti un confuso groviglio di rivendicazioni dove si mischiano il sentimento anti occidentale, il nazionalismo, la difesa intransigente dell'Islam originario, un richiamo alla giustizia sociale.

Questo è l'humus che ha permesso la crescita del fondamentalista islamico. Ma questo non spiega completamente la situazione attuale se non attraverso alcuni passaggi fondamentali che ne hanno favorito lo sviluppo, e addirittura l'odierna formazione di “Stati” (principalmente lo I.S. tra Siria ed Iraq a cui, per emulazione, si ispirano altri califfati). Innanzitutto la guerra in Iraq del 1991, a cui ha fatto seguito quella del 2003 che ha di fatto frantumato il composito mosaico etnico-religioso di tutta la regione che vedeva da secoli la presenza di sciiti, sunniti, cristiani, yazidi, curdi, ecc... In secondo luogo gli interventi “umanitari” delle varie potenze (fatti in realtà per sostituirsi alle preesistenti dittature), in Libia, Siria, ecc... Inoltre l'azione dell'Arabia Saudita che, d'accordo con il grande alleato USA, ha fornito all'ISIS denaro ed armi per combattere Assad, ma che attraverso questi canali e l'uso politico del fondamentalismo wahabita cerca di estendere la sua influenza nell'area e non solo (vedi la lenta penetrazione in Bosnia in concorrenza con la potenza regionale della Turchia). Da non sottovalutare anche la nuova situazione internazionale con il declinare dell'unica superpotenza USA ed il crescere dell'intervento di medie potenze regionali come Iran, Turchia, Egitto, Israele, Arabia Saudita, ognuna con i propri interessi e le proprie alleanze.

A tutto questo, per cercare di capire la presenza di migliaia di combattenti islamici europei nelle file dell'ISIS, dovremmo aggiungere anche un altro aspetto costituito dall'evidente fallimento dei modelli di integrazione adottati in Francia e nel Regno Unito; un fallimento agevolato pure dalla crisi che acuisce le diversità delle condizioni economiche e, in mancanza di una prospettiva di cambiamento sociale, favorisce la fuga nel religioso (2).

La risposta dei governi occidentali all'espandersi dello stato islamico, ed alle continue atrocità e stragi di inermi perpetrate in suo nome, è stata ancora una volta quella del ricorso a bombardamenti che tra l'altro colpiscono indiscriminatamente le popolazioni. In sostanza si continua per la vecchia strada: dopo avere addestrato ed armato le bande reazionarie per i propri fini si ricorre, nel momento che queste perseguono i loro interessi colpendo chi li ha finanziati, all'intervento armato (meglio se fatto a distanza di sicurezza con bombardamenti aerei). Il tutto con il risultato di non risolvere ma anzi di aggravare la situazione, come già avvenne in Afghanistan ed in Iraq.

In questa situazione così complessa, difficile, che appare priva di soluzioni positive, nonostante tutto si è accesa una luce di speranza. In Siria, nella regione del Rojava che si trova al confine con Turchia ed Iraq, la popolazione in prevalenza curda musulmana, ma con significative presenze di arabi, turcomanni, yazidi, cristiani, ha proclamato la propria autonomia dal regime di Assad e si autogoverna attraverso comitati popolari dove tutte le etnie e le religioni sono coinvolte, in un modello di società democratica lontana dal liberismo economico e dove è stata dichiarata la parità tra uomo e donna (3). L'esperimento attuato in Rojava è un esempio, pur limitato ma da non sottovalutare, che indica a quelle popolazioni la strada della lotta e della resistenza ma anche quella della convivenza e dell'autogoverno. Non solo: la convivenza tra diversi, la parità tra uomo e donna, l'aiuto reciproco tra le comunità, sono risultati che possono contribuire anche a combattere la montante propaganda razzista portata avanti in Europa in primo luogo dai vari movimenti fascisti e neonazisti.

Il lungo assedio da parte dell'ISIS della città di Kobane, agevolato dalla Turchia in funzione anticurda, è stata la vicenda che ha portato alla ribalta la resistenza di quelle popolazioni; per questo salutiamo la recente vittoria a Kobane, ottenuta sul campo dai miliziani curdi organizzati nelle brigate YPG e dalle miliziane della brigata YPJ, come una vittoria militare e politica di rilievo che può aprire prospettive positive per tutta quella martoriata regione.

Da una guerra all'altra

In Ucraina, dove era in atto una tregua apparente che non ha mai completamente funzionato, sono ripresi con veemenza i combattimenti nelle regioni orientali. Strana crisi quella ucraina: se ne parla poco, anzi il meno possibile, eppure alle porte dell'Europa è in corso una guerra che ha visto in pochi mesi migliaia di morti e grandi distruzioni materiali. I differenti interessi in campo tra l'imperialismo russo e quello occidentale si fronteggiano in Ucraina scaricando lutti e miseria sulle popolazioni. Ma, per quanto riguarda i paesi occidentali, con alcune differenze che vedono soprattutto gli USA spingere per una adesione dell'Ucraina alla NATO; c'è chi vede in questo un disegno americano per aggravare la tensione con Mosca che si rifletterebbe in maniera negativa soprattutto sulla Unione Europea.

La crisi, latente per anni, ha avuto una accelerazione con la “rivoluzione” di piazza Maidan a cui ha fatto seguito l'annessione della Crimea alla Russia, ed è poi diventata nelle regioni orientali del paese un aperto scontro portato avanti con armi pesanti. Così come era stato evidente il ruolo degli USA nelle vicende di piazza Maidan, con l'appoggio dato anche alle organizzazioni fasciste armate, è oggi palese il coinvolgimento e la presenza della Russia nell'armamento e nel sostegno ai ribelli orientali. Di fronte a questo la U.E., e soprattutto la Germania, nonostante le dure dichiarazioni verbali di condanna predilige per ora il confronto negoziale con la Russia.

Purtroppo nella situazione ucraina, al momento, non sembra esserci una credibile alternativa allo scontro in atto fomentato da più parti; una alternativa internazionalista che sappia svincolare il proletariato da interessi che non sono i suoi, una alternativa contro il mortifero nazionalismo che scaglia lavoratori contro lavoratori in una logica perversa che come sempre serve solo a rafforzare gli interessi delle borghesie nazionali.

La situazione in Grecia

Infine il mese si è chiuso con la vittoria di Syriza, trascinata dal giovane leader Alexis Tsipras, nelle elezioni parlamentari che si sono svolte in Grecia. Syriza è una coalizione della sinistra greca che dopo alterne vicende si è costituita circa tre anni fa in partito unico. La provenienza dei movimenti che vi sono confluiti è la più varia: dai comunisti fuoriusciti a più riprese dal marxista leninista KKE ai movimenti socialisti democratici, dai gruppi ambientalisti a quelli della galassia trotzkista, anche se una parte di rilievo nella formazione di Syriza è stata quella del movimento capeggiato da Alexis Tsipras, il Sinaspismos (Coalizione della Sinistra, Movimenti, Ecologia), che era formato in gran parte da militanti provenienti dal partito comunista. La sintesi di queste esperienze si esprime in una linea politica antiliberista che, pur se impropriamente, potremmo definire “socialdemocratica” sul piano economico e progressista per quanto riguarda i diritti civili e sociali; una linea politica che non vuole stravolgere il sistema ma che nella realtà greca assume un aspetto “radicale”. Syriza ha anche cercato di costruire una rete di solidarietà popolare con mense, assistenza nei quartieri, ambulatori medici gratuiti: un intervento sociale che ha sicuramente pagato pure sul piano elettorale se si pensa che in Grecia molte persone sono sprovviste di assistenza sanitaria in quanto disoccupate da oltre un anno.

La vittoria elettorale di Syriza era prevista, seppure non nelle percentuali e nei seggi, e forse lo era anche la successiva alleanza con il partito di centro destra ANEL (Greci Indipendenti) per la formazione del nuovo Governo. Alexis Tsipras ha sostenuto che non aveva altra strada visto il rifiuto del KKE e l'offerta di sostegno esterno di TO POTAMI, un partito di centro sinistra marcatamente europeista e sensibile ai dettami della Troika per quanto riguarda la restituzione del debito. La vittoria di Tsipras è stata accolta dai vari partiti euroscettici sparsi in Europa, sia di destra che di sinistra, con affermazioni di soddisfazione se non di giubilo. Anche la successiva formazione del Governo con il centro destra è stata vista quasi come uno sbocco naturale, e perfino la nostra variegata e rissosa sinistra elettorale non ha battuto ciglio. Noi pensiamo invece che andrebbe fatta qualche considerazione, anche da parte di chi crede nei percorsi elettorali, per evitare future cocenti delusioni.

La situazione sociale che si è creata in Grecia è pesantissima: la disoccupazione è salita al 27% (oltre il 50% tra i giovani), il 30% degli abitanti è realmente sotto la soglia di povertà, negli ultimi cinque anni la mortalità infantile è aumentata di circa il 50%. Nonostante i forti tagli ai salari, alle pensioni, al sociale, il debito pubblico è salito vertiginosamente dal 125% del 2009 al 175,5% del 2014. Riportiamo questi dati, certamente noti, perchè fotografano la realtà sociale che ha prodotto la vittoria elettorale di Syriza. In questa ottica è maturata l'alleanza con il partito del discusso leader di centrodestra Panos Kammenos (a cui, tra l'altro, è stato dato il delicato Ministero della Difesa). Il Governo presieduto da Alexis Tsipras, che ha esordito ritirando dei licenziamenti ed annullando le previste privatizzazioni di ferrovie e porto del Pireo, si troverà certamente in una situazione estremamente complessa; se sono scontate e messe in rilievo le difficoltà per trovare una rapida intesa sulla rinegoziazione del debito, sono state invece messe frettolosamente da parte quelle possibili interne al Governo.

Non sappiamo se l'alleanza con ANEL abbia prodotto delle ripercussioni negative all'interno di Syriza anche se, in questa prima fase tutta proiettata sul debito, è probabile che gli eventuali militanti recalcitranti abbiano fatto buon viso a cattiva sorte. Per quanto invece riguarda i rapporti tra Syriza ed ANEL, finché l'azione del Governo resterà nell'ambito dell'intervento costituito da debito/troika/assistenza sociale è probabile che le differenze restino sopite; ma col tempo la spinta dei movimenti che chiedono di ampliare i diritti politici, sociali, civili, se accoppiata ad una ritardata soluzione dei problemi sociali più urgenti attesi da gran parte di greci, potrebbe produrre delle lacerazioni viste le posizioni espresse in passato da ANEL sulla immigrazione, i diritti civili, il rapporto tra Stato e Chiesa Ortodossa Greca, il nazionalismo, ecc.... Una cosa è certa: per Alexis Tsipras i tempi saranno stretti sia per trovare un accordo con la Unione Europea, sia per mantenere il sostegno di chi anche questa volta è andato a votare dando fiducia alla politica parlamentare.

Concentrazione della ricchezza ed aumento della povertà

Le guerre in Medio Oriente ed in Ucraina, l'ascesa di movimenti ed organizzazioni terroristiche che si richiamano al fondamentalismo islamico, la condizione sociale in Grecia: tutte situazioni che sono molto lontane, se non geograficamente, sicuramente dal punto di vista politico. Eppure a ben vedere, come molti altri avvenimenti del passato e del presente, hanno qualcosa in comune nelle circostanze che ne hanno reso possibile lo sviluppo. Lo squilibrio economico e sociale, che è nella natura stessa del capitalismo, accentuato negli ultimi trenta anni dalla ondata liberista, ha prodotto condizioni insopportabili per gran parte delle popolazioni dei paesi meno sviluppati ed ha sempre più aggravato anche quelle delle classi subalterne nei paesi più sviluppati.

E' ormai noto da tempo il crescente squilibrio della ricchezza tra i vari paesi, ed all'interno degli stessi, e questo viene appurato e certificato da fonti non certo sospettabili. Una ricerca delle Nazioni Unite ci dice che nel 2000 l'1% della popolazione mondiale deteneva il 40% della ricchezza, il 10% ne deteneva l'85%, mentre la metà più povera del mondo doveva spartirsi l'1% della ricchezza. In questi quindici anni lo squilibrio è ulteriormente aumentato e ad oggi le 80 (ottanta!) persone più ricche del nostro pianeta hanno risorse equivalenti a quelle di 3,5 miliardi di poveri (che sono il 50% della popolazione mondiale). Entro il 2016 si prevede che l'1% della popolazione mondiale avrà a disposizione oltre il 50% della ricchezza.

Anche nei singoli paesi, benché la distribuzione sia diversa, non cambia la tendenza alla concentrazione. Ad esempio in Cina il 10% della popolazione possiede il 40% della ricchezza, ma questa percentuale è in crescita, mentre negli USA lo stesso 10% ne possiede il 70%. In Italia, secondo tutti gli indicatori di ISTAT e Banca d'Italia, il 10% delle famiglie possiede oltre il 50% della ricchezza mentre il 50% ne possiede il 10%.

Questi squilibri, che risultano ovviamente più marcati in alcune aree, producono crescenti tensioni sia tra le nazioni che al loro interno; povertà in aumento anche nei paesi economicamente più sviluppati con disoccupazione e tagli ai servizi sociali; guerre che sono sotto gli occhi di tutti e conflitti ignorati dall'opinione pubblica; migrazioni di massa, spesso con contrasti tra gli strati più poveri delle popolazioni autoctone ed i nuovi arrivati che a loro volta accumulano disillusione e frustrazione. E potremmo continuare.

La risoluzione dei problemi internazionali viene sempre più demandata ad interventi militari svolti dalle varie potenze che, come detto, hanno l'effetto di aumentare le situazioni di crisi. Da tempo è caduta anche la foglia di fico costituita in passato dagli interventi “umanitari” sotto l'egida dell'ONU; negli ultimi anni le varie potenze hanno agito singolarmente, o associate, in base ai propri interessi economici e strategici senza nulla chiedere agli organismi internazionali e producendo, oltre alla morte ed alle distruzioni, ulteriori disastri politici ed umanitari.

La soluzione a questo groviglio di problemi non può che essere diversa e, per noi comunisti anarchici, vuole dire superare i disastri del capitalismo - il “libro nero del capitalismo” - con un radicale cambiamento nei rapporti sociali e di classe, nella distribuzione delle risorse, nei diritti degli uomini e delle donne, nei rapporti di produzione.

Mario Salvadori


Note

  1. F. Gaja – “Le frontiere maledette del Medio Oriente” (Maquis Editore, 1991).

  2. G. Cimbalo – articolo “Integrazione e disintegrazione della società in Europa” (su Crescita Politica – Newsletter dell'UCADI – n. 12 del 28 Gennaio 2015).

  3. B. Lima Rocha – articoli “Speranza Mediorientale”; “Rojava: la posta in gioco”; “Appello dell'Amministrazione Cantonale di Kobane” (su “Alternativa Libertaria” - Foglio telematico della FdCA – 16/31 Dicembre 2014).